Il 25 giugno di 5 anni fa uscì il primo romanzo: “Ogni giorno ha il suo male”. Iniziò come un gioco ma i lettori decisero che si trattava di qualcosa di più e così ne seguirono altri, fino ad arrivare al nuovo nato: “Alla fine del viaggio”. Qualcuno iniziò a chiamarmi “scrittore” e a me la cosa suonava strana. Per deformazione professionale andai a cercare una legge, un regolamento, una circolare, insomma qualcosa dove fossero riportati i requisiti per potersi fregiare di questo titolo. Non trovai nulla. Non esiste una regola scritta, non esiste un albo o un ordine degli scrittori. Quindi, in questi anni, ho continuato a chiedermi quando sarebbe stato il momento giusto per poter accettare questo termine senza sentirmi un usurpatore. Perché, pensavo, non è che se scendi in strada a dare due calci a un pallone puoi definirti un calciatore. Allo stesso modo, strimpellare qualche accordo di chitarra di certo non fa di te un musicista, come dipingere le pareti della cucina non fa di te un pittore. Allora, in mancanza di riferimenti certi, approvati da una qualche autorità costituita, ne scelsi uno io. Decisi, in modo del tutto autonomo e arbitrario, che mi sarei sentito “scrittore” nel momento in cui uno dei miei romanzi fosse entrato nella top venti della narrativa italiana. Ma non solo in quella della rilevazione Arianna, sarei dovuto essere presente anche in quelle che usano criteri più restrittivi fatte da GFK e da Nielsen e pubblicate, rispettivamente da “Robinson” di Repubblica e da “La lettura” del Corriere della Sera. Quell’elenco di venti nomi è una specie di classifica della serie A, se ci finisci dentro sei nel calcio che conta, anche se lotti per non retrocedere. Ecco, da oggi, chiamatemi pure scrittore. Ma solo fino a domenica prossima, però, perché dopo rientrerò al lavoro e si ricomincerà a fare sul serio.
