Criminologia

Il manicomio dei bambini

Su questa Terra, del Paradiso ci sono poco tracce. Frammenti di racconti, promesse, qualche rara apparizione, lampi di fugace felicità che finiscono con il trarre in inganno sulla sua reale esistenza. L’Inferno, invece, é dappertutto. Il male ci circonda, ci insegue, é intorno a noi, ci sommerge, creando, spesso, veri e propri capolavori di crudeltà. Uno di questi lo è stato, senz’altro, Villa Azzurra, l’Ospedale Psichiatrico di Gurgliasco (TO) che fu anche il Manicomio dei bambini.

La struttura iniziò la propria attività nella prima metà del Novecento, in un periodo compreso tra gli anni Venti e gli anni Trenta. L’edificio, oggi in completo stato di abbandono come altri istituti simili, aveva lo stile architettonico di una villa signorile e per questo motivo venne considerato un luogo “più accogliente” rispetto ad altri luoghi di cura dell’epoca. Di qui il nome “Azzurra”, che lasciava presupporre una certa serenità e che, almeno nelle intenzioni iniziali, si voleva trasmettere ai pazienti più giovani.

All’interno del reparto operavano medici, infermieri e suore. I metodi e le “cure” che venivano somministrate ai bambini, però, non erano diversi da quelli riservati alle persone adulte: segregazione, contenimento, elettroshock e lobotomia non si fermavano nemmeno davanti a loro. Come dimostra la storia di Angelo, riportata, insieme ad altre sette,  nel libro inchiesta di Alberto Gaino “Il manicomio dei bambini”.

Angelo racconta che aveva tre anni quando un’assistente sociale lo portò a Villa Azzurra perché la mamma (una ragazza madre) non era in grado di occuparsi di lui. “Ci finii giusto per avere un letto e un piatto di minestra … A quell’età, di male potevo avere fregato solo i ciucci all’asilo. Poi, a Villa Azzurra, che era una caserma con le suore che punivano per ogni nonnulla, diventai oppositivo, come dicevano tutti. Ricordo che mi punivano e io scappavo per le grondaie sul tetto, mi nascondevo nei tombini, mi rifugiavo nella camera mortuaria in fondo all’Ospedale psichiatrico … Cominciai a essere legato al letto, o al termosifone, che avevo quattro anni. Così diventai un ribelle. Non scappavo soltanto. Rispondevo alzando anch’io la voce. Era arrivato Coda, lo psichiatra elettricista. Mi ha dato la scossa cinquantadue volte. Non mi ricordavo quant’erano state. Ho rubato la mia cartella clinica e là c’è scritto che Coda mi fece mettere la gommetta fra i denti e i due tappi alle tempie tutte quelle volte. A dire il vero, e questo me lo ricordo senza consultare le carte, secondo come gli girava, l’elettricità me la dava ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, oltre che alla testa. Diceva alla suora: «Si è fatto la pipì addosso? Sì? Insegniamogli a non farla più». Oppure bastava che lo avessi guardato storto … Una volta partita l’elettricità nel mio corpo, non capivo più niente e svenivo … Ricordo che prima di svenire me la facevo regolarmente addosso. Me ne accorgevo al risveglio. Sporco com’ero rimanevo così per ore, a volte anche per giorni, una volta per quattro giorni, e mi sporcavo ancora di più. Al centro della rete c’era il cuculo. Ce l’avete presente il film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”? Noi chiamavano cuculo il buco che veniva fatto in mezzo alla rete perché non ci sporcassimo. Ma c’erano le volte che non si poteva evitare di sporcarci. Dipendeva da come ti legavano. Se nella fretta ti legavano tutto storto non c’era niente da fare: te la facevi addosso. E restavi così.

Il Coda, di cui parla Angelo, era lo psichiatra Giorgio Coda, vicedirettore dell’ospedale psichiatrico di Collegno dal 1956 al 1964 e direttore della struttura psichiatrica per bambini Villa Azzurra di Grugliasco dal 1964 alla fine del processo che si tenne a suo carico negli anni 70. Coda venne soprannominato “l’elettricista” per l’abuso che fece dell’elettroshock. Per sua stessa ammissione, ne praticò oltre 5mila su alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali e masturbatori, ma anche su bambini. Sconvolgenti erano le modalità con cui l’elettroshock veniva praticato sui pazienti. Il trattamento consisteva nell’applicazione di scariche elettriche durature ai genitali e alla testa. Le scariche erano provocate senza anestesia e, quasi sempre, senza pomata e gomma in bocca tanto che spesso ai pazienti saltavano i denti.

Le torture tra le mura di Villa Azzurra terminarono solo quando, un’assistente sociale, Maria Rapaci, nel 1970 ruppe il muro di omertà che nascondeva quel che davvero accadeva negli ospedali psichiatrici. La Rapaci inviò un rapporto dettagliato al Tribunale per Minorenni sui metodi di cura e sul trattamento che ricevevano i bambini ricoverati a Villa Azzurra. A questa denuncia si aggiunse quella di un reportage del settimanale L’Espresso che pubblicò foto di bambini nudi legati ai letti all’interno della stessa struttura (foto in copertina).

Il 7 settembre del 1970, Coda venne incriminato per il reato di “abuso dei mezzi di correzione” ma venne applicata l’amnistia. Qualche mese dopo, però, il giudice istruttore ricevette un esposto dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali: l’inchiesta venne riaperta e Coda fu processato e condannato a cinque anni per maltrattamenti, di cui tre condonati, con interdizione per 5 anni dall’attività medica e pagamento delle spese processuali. Fece poi appello, ottenendo l’annullamento per vizio di incompetenza. La sua difesa, dopo la sentenza di primo grado, svelò che il professore era anche giudice onorario del tribunale dei minori di Torino e avrebbe dovuto essere giudicato in altra sede. Il processo, spostato, naufragò in seguito nella prescrizione dei reati. Ma fu un processo, riportato anche nel film “La Meglio Gioventù “di Marco Tullio Giordana, importantissimo perché, per la prima volta, un Tribunale diede la parola ai “matti“, li fece testimoniare e le loro testimonianze, come dimostra l’esito del procedimento, furono ritenute attendibili. Da quei fatti scaturì un dibattito fondamentale sui metodi di cura utilizzati in psichiatria che diede inizio al cammino della Legge Basaglia, promulgata il 13 maggio del 1978, che portò alla chiusura definitiva dei manicomi.

Ma la storia del professore “elettricista” non finì lì. Nel dicembre del 1977, quattro uomini dell’organizzazione armata di estrema sinistra “Prima Linea” entrarono nel suo appartamento, dove effettuava ancora visite private, e gli spararono alle gambe dopo averlo legato a un termosifone.

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